Riflessione sulla proprietà privata

Benché non sia nei miei interessi primari, di recente mi sto dedicando allo studio della storia moderna in previsione di un prossimo esame in Università. Devo dire che la prevalente componente manualistica ha affievolito facilmente il mio entusiasmo, anche perchè scorrendo un elenco di fatti e date difficilmente è possibile scovare uno spunto teoretico di rilievo. Eppure giorni fà, rileggendo alcune pagine, mi è saltato agli occhi un capoverso che riporto qui di seguito:
Il sistema a campi aperti caratterizzava nel '600 oltre la metà delle campagne inglesi: era costituito da appezzamenti non recintati, contigui, ma in proprietà individuale, non collettiva. Le consuetudini prevedevano che su questi campi, dopo il raccolto, tutti gli abitanti del villaggio potessero spigolare o inviare gli animali al pascolo. Di proprietà collettiva erano invece le terre comuni destinate al pascolo, alla raccolta di legna, ecc. I diritti d'uso di queste terre non appartenevano a tutti indistintamente, ma a quanti avevano proprietà nel villaggio. Su di esse risiedevano, in modestissime capanne (cottages), spesso abusivamente, i contadini poveri e privi di proprietà.
In questo caso mi ha colpito l'idea di collettività perchè sapientemente in quegli anni si distingueva tra proprietà e diritto d'uso, facendo riferimento ad un concetto di proprietà differente a quello che oggi utilizziamo. In effetti il testo parla giustamente di proprietà individuale e non di proprietà privata, che storicamente viene a costituirsi, in quel clima del 600, con le enclosures, ovvero con le recinzioni di quelle proprietà stesse, dando avvio ufficialmente al sistema capitalistico individuale. Riflettevo pertanto sul concetto di terra comune o di comune utilizzo che nel 600 poteva sussistere solo in virtù di un concetto di proprietà debole (per dirla con termini attuali). Le terre di confine venivano messe a disposizione in modo da rendere vantaggioso l'utilizzo a "tutti gli abitanti del villaggio"; addirittura alcune terre erano talmente comuni che venivano utilizzate da contadini "poveri e privi di proprietà". Nel momento in cui le terre vennero ad essere recintate per poter essere sfruttate massimamente e in libertà assoluta dal proprietario, ecco che l'antico sistema dei campi aperti, culla della proprietà comune, viene a cessare. In questa piccola vicenda storica emerge un dato che a noi figli del liberalismo moderno appare quasi scontato: la proprietà "privata" in senso forte è incompatibile con la proprietà comune. In questo sistema di proprietà private individuali, anche nell'analisi del "comune", la proprietà acquista valore nella risposta alla domanda: «di chi è?» e la risposta non può essere "di tutti" perchè "di tutti" in tale sistema equivale a "di nessuno". Eppure noi facciamo ugualmente politica, ci impegniamo nella creazione di uno stato "giusto", parliamo di politiche sociali etc. nonostante la nostra società di basi sul concetto forte di proprietà privata.
Questo inghippo, d'altronde, l'aveva già capito Platone, quando sosteneva la necessità di creare un nuovo sistema di rapporti statali in cui dire "io" non significasse dire "mio". Ma Platone fallì, come fallirono tutti quei sistemi tesi a ridurre o annullare il "mio" per svariati ordini di motivi - chi dice per incapacità di un "comunismo reale" o perchè in realtà l'uomo è "naturalmente" legato ad una proprietà etc. Ecco che nella storia moderna scopriamo un tentativo riuscito di buona proprietà comune, di Bene comune, che può insegnarci molto su come intendere tutta quella terminologia politica e statale nelle future discussioni, tanto delicata quanto utilizzata troppo spesso in maniera varia e imprecisa da politici impreparati.

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