Un “secondo” Barack

da Die Brücke

Vince ma non convince – si potrebbe riassumere con una battuta calcistica l’andamento della “lunga notte elettorale 2012” (orario italiano), che ha confermato Barack Obama alla guida degli Stati Uniti d’America per la seconda volta consecutiva.

Difficile enumerare le molteplici cause e le svariate tendenze che hanno portato Obama a conseguire la maggioranza dei Grandi Elettori, soprattutto in virtù della strana campagna elettorale, combattuta contro un avversario che raramente ha dato l’impressione di potercela fare davvero. Ecco perché la festa e le bandierine sventolate nella sua Chicago non devono illuderci di assistere alla riproposizione di un film già visto: l’entusiasmo che avevamo percepito a Chicago per lo storico superamento di ogni razzismo, avvenuto nell'elezione del primo presidente di colore alla Casa Bianca, non è più lo stesso; e poi diversi sono stati anche i brindisi e non vi è oggi traccia di quel clima “frizzantino” che spinse la giuria svedese a consegnare il primo Nobel alla “speranza” (più che alla “pace”) e non alla carriera – forse, ci permettiamo di osservare, un po’ frettolosamente, date le missioni militari in Libia.

Tra il racconto dell’astro nascente del 2008 e l’Obama che oggi si difende contro gli attacchi al Medicare e all’aumento della spesa pubblica, trascorrono difatti gli anni della crisi economica, della bolla speculativa, del fallimento della Lehmann Brothers, e poi quegli aiuti di stato mal visti da molti, i salvataggi alle imprese (compresa la Chrysler di Marchionne), il G8 nella città terremotata dell’Aquila (e la sua promessa di 4,5 mln per la ricostruzione, mai arrivati), e poi, at last but not least, la riforma sanitaria, ovvero quella che doveva rappresentare il primo passo verso la rivoluzione culturale disegnata e sostenuta durante le primarie del 2007. Non è quindi soltanto una questione di “calo fisiologico” ad aver causato un certo riavvicinamento tra i Democratici e il GOP, misurato dallo spread tra i 365 Grandi Elettori conquistati da Obama nel 2008 e gli attuali 332 – 206 di Romney contro i 173 di McCain -, ma è un cambio di strategia politica tra le due campagne elettorali – certo, un change forzoso, ma pur sempre un depotenziamento del sogno a vantaggio della realpolitik.

Insistiamo: un abbandono del sogno, che avrebbe potuto significare un contraccolpo elettorale importante. Invece l’abilità di Obama è stata forse proprio quella di aver saputo creare un “secondo” Obama, spesso sulla difensiva, più attento ai numeri e alle mediazioni di quanto egli stesso non sapesse fare. Ed è proprio questo il rammarico più forte in area GOP: non aver saputo sfruttare l’imbarazzo dell’avversario snaturato e costretto sul piano del realismo economico e politico; un tema che, difatti, era il terreno su cui i Conservatori volevano portare l’avversario: la disoccupazione crescente, la risposta ai problemi con un socialisteggiante “più Stato” – sempre vista con una certa diffidenza dagli americani –, e soprattutto le difficoltà della middle class. Eppure tutti questi punti di forza non sono bastati a Mitt e al suo vice Paul Ryan per battere l’avversario.

Paul Ryan, si diceva, una delle sorprese più liete messe in campo; un conservatore d.o.c., fiero sostenitore dello stato minimo, uomo di fede cattolica e fanatico dello sport. Ryan è l’espressione più viva di una destra diversa da quella del capitano d’impresa Romney, ricordato più per le spese nella riforma sanitaria del suo Stato che per l’abilità di governo. Una sconfitta anche per il Tea Party, il movimento anti-tasse che dal 2009 può vantare il merito di aver portato in piazza la classe media e di aver a più riprese cercato di smascherare “l’illusionismo” del presidente Obama. Non è allora bastato lo spauracchio del socialismo e le accuse di aver trascinato l’America in un baratro persino contrario agli ideali dei patrioti. L’amaro in bocca degli elefanti traspare tutto nella Boston repubblicana, dove forse in molti si saranno chiesti se forse Obama non avesse vinto più per i loro errori che per i propri meriti, e se non fosse stato più opportuno candidare un rappresentante verace del partito; uno che – per intenderci – fosse, per così dire, “carne” – ovvero rappresentante della destra libertaria – o “pesce” – esponente del cuore cattolico d’America – e non come, più modestamente, era Romney: né l’uno, né l’altro.

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